PROBLEMI BIOMECCANICI DETERMINATI DALLA SPONDILOLISTESI
Nell’ambito di una stessa condizione patologica, si assiste spesso ad espressioni cliniche estremamente variabili, che vanno dalla assoluta assenza di sintomatologia, fino ai quadri più gravi ed eclatanti, tali da richiedere un immediato trattamento, che può essere solo chirurgico.
La spondilolistesi, di qualsiasi etiologia ed entità, può quindi essere asintomatica. Anche nelle sue forme displasiche, di natura congenita, ossia presente alla nascita, essa diventa sintomatica solo in un momento ben preciso della vita, allorché cioè si rompe un equilibrio più o meno precario.
Dobbiamo fare una premessa: la spondilolistesi assume una importanza clinica del tutto peculiare, rispetto ad altre situazioni patologiche, in quanto interessa la cerniera lombosacrale e quindi le strutture di collegamento fra il rachide ed il bacino: la zona in cui si vanno a concentrare le sollecitazioni che la stazione eretta e le attività motorie del tronco e degli arti superiori determinano, e che attraverso la chiave di volta della cerniera lombosacrale si trasmettono sul sacro, sul bacino e quindi sugli arti inferiori. E’ naturalmente il tributo che l’”homo erectus” deve pagare, per aver assunto con la posizione eretta la sua nuova figura di “homo abilis”.
Tale imponente concentrazione di sollecitazioni spiega come avvenga che una situazione displasica,
o degenerativa, o di altra natura, che venga ad alterare le strutture deputate a tale importantissima funzione, finisca per avere dei riflessi spesso molto importanti sulla statica vertebrale.
La spondilolistesi finisce per diventare una situazione di instabilità vertebrale, per effetto di diverse situazioni patologiche, ma le cui manifestazioni cliniche sono sovrapponibili:
• Nelle spondilolistesi istmiche si ha una interruzione della pars interarticularis , che può essere presente alla nascita (forme displasiche), o manifestarsi nel corso della vita, per effetto delle sollecitazioni che si vengono a concentrare sull’istmo, sottoposto tra l’altro ad una azione di “ghigliottinamento” da parte della apofisi articolare inferiore della vertebra sovrastante e l’apofisi articolare superiore della vertebra sottostante. L’interruzione dell’istmo ha per effetto di discaricare l’arco posteriore, mentre tutte le sollecitazioni vengono a concentrarsi sul disco intervertebrale. Questa struttura, tra l’altro nella maggior parte dei casi sottoposta a forze non di compressione, ma di taglio, in conseguenza della accentuata inclinazione del sacro (espressione anche questa della displasia), finisce per degenerare: le fibre dell’anulus dapprima si adattano allungandosi, un adattamento simile alla alisteresi, ed in seguito si frammentano perdendo la loro capacità di mantenere uniti i corpi vertebrali e contenere adeguatamente il nucleo polposo. Questo finisce per riassorbirsi del tutto, finchè i piatti epifisari vengono a diretto contatto fra di loro. Possiamo affermare che la instabilità è un processo secondario alla spondilolistesi.
• Nelle spondilolistesi degenerative la degradazione delle strutture destinate a mantenere unite le vertebre, il disco intervertebrale e le articolazioni interapofisarie, oltre alle altre strutture legamentose, si verifica per effetto di fenomeni degenerativi (Fig. 7). Si crea ugualmente una situazione di instabilità segmentaria cronica, che è però primitiva, rispetto alla spondilolistesi, la quale ne è la sua manifestazione, ma non l’unica possibile. Ricordiamo che esistono anche fenomeni di retrolistesi, e di laterolistesi, come espressione di una instabilità vertebrale.
In ogni caso, sia che la instabilità sia primitiva, che secondaria, è questa che domina il quadro clinico, almeno nelle prime fasi della storia naturale della malattia. La sintomatologia è cioè quella di una condizione di instabilità dolorosa del rachide lombosacrale (Fig. 8): il paziente, nel mantenere la stazione eretta, comincia ad avvertire una intensa sintomatologia lombalgica, che si attenua o scompare con il decubito. Nel corso degli anni, la clearance funzionale del rachide lombosacrale, il periodo libero cioè fra l’assunzione della stazione eretta e l’apparizione della sintomatologia dolorosa, con obbligo a riprendere il decubito, tende a ridursi progressivamente, fino a rendere indispensabile una stabilizzazione chirurgica.
V’è una sola situazione clinica, in cui l’instabilità determinata dalla spondilolistesi non conduca ad un progressivo aggravamento del quadro clinico: si osserva in quelle forme di spondilite degenerativa, nelle quali si verifica una progressiva ossificazione del legamento longitudinale anteriore, e, talvolta, dello stesso disco intervertebrale. Sono quelle situazioni che raggiungono una stabilizzazione spontanea e che quindi non necessitano di alcun trattamento.
PROBLEMI NEUROLOGICI DETERMINATI DALLA SPONDILOLISTESI
La sintomatologia neurologica non sempre è presente: la sua apparizione può essere molto precoce, precedendo talvolta la sintomatologia lombalgica, o apparire in seguito, o non presentarsi affatto, nei quadri dominati dalla instabilità vertebrale.
La patogenesi della sintomatologia clinica non è univoca, e questo spiega la apparente incongruenza delle sue manifestazioni.
• Nelle forme istmiche ( e displasiche), in realtà si assiste, per effetto della olistesi, cioè della migrazione in senso anteriore del corpo vertebrale, ad un allargamento del canale spinale: l’arco posteriore rimane posteriormente, collegato alla vertebra sottostante mediante l’articolazione interapofisaria inferiore, mentre il corpo si sposta in avanti. Tale nozione è confermata dallo studio MRI, che mostra pressoché costantemente un ampio recesso canalare (Fig. 9). E’ evidente che in tali casi la sintomatologia neurologica non può essere determinata da una azione diretta di compressione sul sacco durale, non esistendo una stenosi vera propria. La clinica conferma tale dato: non è infrequente osservare forme molto gravi di spondilolistesi, se non di spondiloptosi, ove il quadro neurologico sia assolutamente indenne. Se appaiono dei segni di sofferenza neurologica, che possono essere mono-, o pluriradicolari, se non assumono addirittura un quadro di sofferenza della cauda equina, la patogenesi va riferita :
• o ad un problema di stenosi foraminale, determinata dalla alterazione progressiva dei forami di coniugazione che possono giungere alla obliterazione pressoché completa, strozzando le radici;
• o ad un problema di trazione diretta sulle radici nervose, determinato dalla migrazione progressiva del corpo vertebrale che le radici nervose non riescono a seguire;
• o a problemi di alterazione della vascolarizzazione delle stesse radici nervose, che possono essere determinati da ischemia secondaria ad una trazione abnorme sulle arterie afferenti, o da una quadro di stasi venosa, per ostacolo diretto al circolo venoso.
• Nelle forme degenerative si assiste al fenomeno inverso: in questa situazione patologica è l’intera vertebra che si sposta relativamente alla vertebra inferiore, determinando un quadro di ghigliottinamento vero e proprio del canale spinale, che si esprime con una stenosi localizzata alla regione della spondilolistesi (Fig. 10). Tale situazione è aggravata dai processi degenerativi a carico delle articolazioni interapofisarie, che hanno condotto ad una loro ipertrofia, associata ad ipertrofia dei legamenti (Fig. 11). Si associa altresì la degenerazione del disco intervertebrale il quale , avendo perso le sue caratteristiche meccaniche, si collassa, protrudendo all’interno del canale. La sintomatologia clinica è quindi quella di una stenosi canalare vera e propria, nella quale si associano meccanismi di compressione diretta sul sacco durale e sulle strutture nervose, a fenomeni di natura vascolare, sia ischemici, che di stasi venosa.
PRINCIPI DEL TRATTAMENTO CHIRURGICO
Il trattamento della spondilolistesi deve necessariamente essere impostato alla risoluzione delle condizioni che dominano il quadro clinico, che abbiamo brevemente esaminato.
Innanzitutto va ribadito che il trattamento può solo essere chirurgico, e si può affermare che tutte le spondilolistesi vanno operate: si può scegliere se operarle precocemente, onde garantire al paziente una “restitutio ad integrum” tale da consentirgli di affrontare una vita normale, o decidersi all’intervento allorché la situazione dolorosa lombalgica, o il quadro neurologico rendano impellente affrontare il problema. Tutte le spondilolistesi vanno operate perché tutte le spondilolistesi prima o poi si scompensano (tranne quelle forme collegate a fenomeni osteoproduttivi cui abbiamo accennato), ed i rimedi di natura conservativa o riabilitativa hanno solo la funzione di procrastinare la decisione operatoria.
Il trattamento chirurgico deve rispondere a due imperativi:
• Risolvere il problema della instabilità vertebrale;
• Risolvere il problema della sintomatologia neurologica.
Associata a questi due ordini di problemi, v’è la questione se ridurre o meno la olistesi, se cioè mettere in atto delle manovre chirurgiche, utilizzando delle strumentazioni particolari, per raggiungere una normalizzazione dei rapporti fra le vertebre: a nostro parere, non sempre questo è necessario e vedremo perché.
Risolvere il problema della sintomatologia neurologica: è questo il problema più importante, che rende questa chirurgia così delicata e difficile, e che domina le nostre scelte chirurgiche. Innanzitutto, la presenza di una sintomatologia neurologica obbliga ad un accesso posteriore, in quanto non è pensabile di risolvere i problemi di sofferenza delle strutture neurologiche senza avere una ampia e completa visione delle stesse, quale si può ottenere solo attraverso un’ampia apertura del canale per via posteriore. La tecnica chirurgica della liberazione delle strutture neurologiche non può prescindere da una precisa conoscenza della patogenesi delle varie espressioni della sintomatologia neurologica.
Risolvere il problema della instabilità vertebrale: una stabilizzazione vera e propria si può ottenere solo mediante una artrodesi. La necessità di affrontare la sindrome neurologica, conduce ad una scelta ben precisa, di realizzare cioè una artrodesi intersomatica. E’ evidente che non è realizzabile una solida artrodesi posteriore, o posterolaterale, allorché la nostra prima cura è stata quella di rimuovere tutte le strutture posteriore, al fine di liberare completamente le strutture neurologiche interessate. L’artrodesi deve quindi essere quindi intersomatica, e realizzata per via posteriore. E’ infatti impensabile di sottoporre il paziente ad un doppio accesso chirurgico, quando attraverso la via posteriore è possibile di realizzare al meglio sia la liberazione delle strutture neurologiche, che una solida artrodesi intersomatica. L’artrodesi intersomatica è inoltre la scelta di eccellenza:
• Essa è più solida, in quanto la superficie di affrontamento dei corpi vertebrali è molto ampia e garantisce la realizzazione di una massa di artrodesi di tutto rispetto;
• È più logica, in quanto è sul corpo vertebrale che si va a scaricare il 90 % delle sollecitazioni meccaniche (Kummel);
• È la più teoricamente corretta, in quanto è in corrispondenza del corpo vertebrale, e più precisamente in corrispondenza del suo margine posteriore, che si va ad identificare il centro di rotazione istantaneo del segmento mobile vertebrale (Fig. 12).
TECNICA
LIBERAZIONE DELLE STRUTTURE NEUROLOGICHE
Scheletrizzate opportunamente le doccie paravertebrali, si reperta l’arco posteriore della vertebra olistesica, che va liberato ampiamente, fino all’apice dei processi traversi bilateralmente, ponendo quindi la massima cura per isolare i massicci articolari. Nelle diverse situazioni patologiche anche il reperto operatorio si differenzia e così le manovre chirurgiche a cui l’operatore deve essere preparato:
• Nelle spondilolistesi istmiche, o displasiche, l’arco posteriore appare libero, fluttuante, collegato alle strutture adiacenti solo attraverso:
• o I legamenti interspinosi ed i legamenti gialli, che lo collegano all’arco posteriore della vertebra sovrastante ed all’arco posteriore della vertebra sottostante. Massima cura va posta nel liberare la giunzione L5S1, in quanto spesso è associata alla spondilolistesi una schisi del sacro più o meno ampia: qui un sottile tintorio separa la muscolatura paravertebrale dal sacco durale (Fig. 13). Tale situazione, se non identificata preventivamente ad un esame TC, o alla MRI, può indurre, durante le manovre di scheletrizzazione, a penetrare nello spazio canalare, ledendo il sacco durale.
• o L’articolazione interapofisaria inferiore, che collega l’arco con le apofisi articolari della vertebra sottostante, struttura che genere appaiono conformate abbastanza regolarmente.
• o Cranialmente l’arco della vertebra olistesica è collegato alla parte olistesica della vertebra (corpo vertebrale, peduncoli, articolari superiori collegate regolarmente con la vertebra sovrastante) da una sorta di neoarticolazione, nella quale è evidente la superficie di separazione fra i due segmenti della pars interarticularis, ove si può osservare la sede del movimento patologico. Spesso è presente una sorta di tessuto fibroso neoformato, nel contesto del quale sono osservabili frammenti ossei.
In alcune situazioni displasiche, si verifica la non esistenza di una lisi vera e propria dell’istmo, ma si osserva una abnorme allungamento dei processi articolari, che ha consentito la olistesi (Fig. 14). Il tempo chirurgico di accesso al canale spinale inizia quindi con la resezione completa dell’arco posteriore: è possibile rimuoverlo nella sua interezza, (la tecnica, descritta da RoyCamille, veniva da questi definita “carapace de homard” -a guscio di astice-), sezionando con grande attenzione i legamenti interspinosi ed i legamenti gialli. Durante tale manovra va verificata con attenzione l’eventuale presenza di aderenze fra l’arco posteriore ed il sacco durale, ad evitare di ledere questa delicata struttura. Rimosso l’arco posteriore si ha una piena visione del contenuto del canale. L’apertura va completata eseguendo una foraminotomia bilaterale. Questo atto richiede di sezionare alla loro base i processi articolari della vertebra inferiore. Si ha così piena luce sulle radici, che vanno isolate e protette nel corso delle manovre successive destinate alla preparazione della spazio intersomatico per la artrodesi (Fig. 15). Nelle spondilolistesi degenerative, la scheletrizzazione, che va condotta con eguale scrupolo fino alle apofisi traverse, avviene con maggiore difficoltà, per effetto dei fenomeni degenerativi che conducono ad uno stravolgimento della anatomia. Le spinose appaiono serrate le une alle altre, spesso evidenziano fenomeni di attrito fra di loro con la presenza di una neo-articolazione (S. di Baastrup); le articolazioni interapofisarie appaiono ipertrofiche mentre la superficie laminare risulta ridottissima e praticamente scomparsi gli spazi
interlaminari, con frequente ossificazione dei legamenti gialli. Tale situazione rende la laminectomia molto indaginosa, in quanto lo spazio fra l’arco posteriore ed il sacco durale è praticamente inesistente. Via via che si procede con la resezione dell’arco posteriore, il sacco si dilata, evidenziando la sua situazione di compressione. Ciò fa sì che la demolizione dell’arco posteriore debba procedere con estrema cautela. Spesso, è preferibile iniziare la laminectomia dalla resezione della apofisi articolari. Queste vanno asportate in toto, compresa le apofisi articolari inferiori della vertebra sovrastante, e le apofisi articolari superiori della vertebra sottostante. Solo in questa maniera si riesce ad aprire completamente i recessi laterali, liberando completamente le radici. Anche in questo caso queste vanno isolate e protette, nello scoprire la parete posteriore del disco intervertebrale. Una difficoltà che si incontra frequentemente durante tale tempo, è la presenza di un vero e proprio plesso venoso che ricopre la parete anteriore del canale spinale. Questo può ostacolare in maniera importante le manovre chirurgiche necessarie alla preparazione dello spazio intersomatico. Si può procedere, con molta cautela, a cauterizzare alcuni vasi utilizzando una coagulazione bipolare: è da tenere presente però la precarietà già esistente della vascolarizzazione a tale livello, sia per le condizioni di stenosi del canale, che per l’età dei pazienti, che spesso presentano un quadro di vasculopatia generalizzato. E’ consigliabile quindi evitare al massimo di turbare la vascolarizzazione a tale livello.
STRUMENTAZIONE POSTERIORE
La strumentazione posteriore precede il tempo di artrodesi, quanto, mediante essa, è possibile iniziare una manovra di distrazione fra le vertebra, che rende più agevole la preparazione dello spazio intersomatico.
La strumentazione da noi preferita, e che consideriamo il punto di arrivo di una ricerca iniziata oltre venti anni or sono, consiste nella fissazione mono-segmentaria mediante viti peduncolari (Fig. 16), collegate da corte barre in titanio. Il materiale che abbiamo usato più estensivamente, è il sistema SCS messo a punto da Steib, come evoluzione del CD. Tuttavia, la strumentazione che attualmente utilizziamo, è rappresentata dal materiale MOSS MIAMI, proposto da Harms e Shufflebarger, la cui prerogativa è di disporre di viti peduncolari sia nella versione poli-assiale (Fig. 17e 18), che nella versione mono-assiale. L’utilizzo delle viti poli-assiali rende più agevole il montaggio e l’eventuale riduzione, per cui la riserviamo alle spondilolistesi istmiche di grado elevato, o alle displasiche . Lo svantaggio di tali viti, a parte il costo, che è notevolmente maggiore delle viti mono-assiali, è il loro maggiore ingombro, per cui sono da evitare nei soggetti molto magri, nei quali, per l’esiguità dei tessuti molli il materiale di osteosintesi è apprezzabile sotto la cute, il che può essere spiacevole.
L’inserzione delle viti è facilitata dalla possibilità di esplorare direttamente i peduncoli, attraverso l’apertura posteriore del canale. In particolare, a livello craniale, troviamo le estremità amputate dell’istmo, e subito al di sopra di queste sono palpabili i peduncoli; a libello caudale, alla base delle apofisi articolari che abbiamo resecato, sono apprezzabili i peduncoli della vertebra inferiore. A questo punto, è consigliabile infiggere nello spazio discale un filo di Kirschner, per seguire la direzione del piatto epifisario superiore della vertebra inferiore. Questo è particolarmente valido allorché tale vertebra sia la S1, nella quale, se non posizionate correttamente, le viti peduncolari possono non trovare una solida presa. Tale vertebra infatti non presenta un peduncolo vero e proprio, e la vite può offrire una presa solo monocorticale posteriormente, ed affondare nel tessuto osseo spongioso del sacro: questa situazione favorisce una precoce mobilizzazione delle viti stesse. Un corretto posizionamento deve prevedere una presa bicorticale: le viti possono quindi raggiungere e fare presa sulla corticale anteriore del sacro, ma, meglio ancora, esse vanno orientante in maniera che la punta della vite ingaggi lo spigolo anteriore e superiore del corpo di S1 (Fig. 19). Questo punto è estremamente solido, spesso addirittura sclerotico, ed offre una presa eccezionale. Il repere va quindi infisso seguendo la direzione del piatto superiore della vertebra, ed i fori per l’alloggiamento delle viti orientati secondo una direzione leggermente convergente con questo, in maniera da raggiungere lo spigolo anteriore e superiore del corpo di S1. La resistenza che offre il tessuto osseo alla perforazione conferma la solidità di questa porzione del sacro. Con l’esperienza, tale manovra può essere compiuta agevolmente senza l’ausilio di osservazione con l’amplificatore di brillanza.
La nostra precedente esperienza nell’uso del “sabot di Chopin” (Fig. 20), che fa parte della strumentazione CD, è stata piuttosto deludente e conferma le nostre scelte attuali. Com’è noto, il “sabot di Chopin” consiste in una corta placchetta destinata alla strumentazione del sacro. Questa prevede da un lato l’inserimento della barra CD, mentre comporta due fori destinati ad accogliere due viti. Questi fori sono orientati in maniera che le due viti divergano: una è orientata in avanti verso il corpo sacrale, e l’altra è diretta lateralmente verso l’ala sacrale. Sia teoricamente, che alla realizzazione del montaggio l’impressione è di
una grande solidità: in pratica le due barre CD sono fissate con quattro viti divergenti. Il difetto del sistema è che le viti fanno presa, in maniera monocorticale, sul tessuto spongioso del sacro, dalle modeste qualità meccaniche. Le viti finiscono per mobilizzarsi abbastanza precocemente ed il montaggio diventa, oltre che instabile, doloroso. Per fortuna ciò avviene, in genere, dopo che l’artrodesi intersomatica abbia fuso, per cui la rimozione del materiale di osteosintesi non comporta il rischio di una pseudoartrosi,o di una recidiva della deformità. Su 15 pazienti che abbiamo operato con tale metodica, in 5 casi abbiamo dovuto rimuovere precocemente il materiale (Fig. 21).
I fori per l’inserzione delle viti craniali vanno preparati subito più in alto della zona di amputazione, dopo aver identificato la posizione e la direzione dei peduncoli.
Inserite le viti, si procede all’inserimento delle barrette nelle teste delle viti, e si esercita una modesta distrazione: va evitata una distrazione eccessiva, per non rischiare una eccessiva tensione alle radici nervose. La distrazione consente di esporre la parete posteriore del disco in maniera da procedere alla preparazione della sede della artrodesi, ed all’inserzione degli innesti ossei autoplastici dentro di questa. Qualora si intenda utilizzare delle cages, è a questo punto che va preparata la loro sede, con lo strumentario apposito (Fig. 22).
ARTRODESI INTERSOMATICA
La realizzazione della artrodesi rappresenta il tempo più importante dell’intervento, ed il successo del trattamento è direttamente collegato ad una completa consolidazione della fusione intersomatica. Ogni attenzione va quindi dedicata a questo tempo, che prevede delle manovre ben precise.
La parete posteriore dell’anulus fibrosus del disco va incisa praticando due fenestrature ai due lati del sacco durale: in genere tali aperture finiscono per trovarsi fra l’ascella della radice superiore, e la spalla della radice inferiore, che vanno quindi opportunamente protette. Si procede quindi alla rimozione completa del nucleo polposo, completata con l’ausilio di curettes. Il tempo successivo prevede la cruentazione dei piatti epifisari, che deve essere quanto più completa possibile. Essa va realizzata con l’ausilio di adatte curettes, ma anche di sottili scalpelli, fino ad esporre il tessuto spongioso del corpo vertebrale (Fig. 23).
Questo tempo va eseguito con eguale precisione anche allorché si intenda utilizzare delle cages, per l’uso delle quali è previsto, nello strumentario ancillare, dei preparatori della sede delle cages che praticano un vero e proprio tunnel nei bordi cortico-spongiosi dei corpi vertebrali. E’ buona pratica associare alla preparazione offerta da detti strumenti, una tradizionale preparazione dei piatti epifisari, onde ottenere una fusione intersomatica quanto più possibile completa.
Lo spazio intersomatico va quindi riempito con innesti ossei autoplastici. Questi possono essere ricavati dalla frammentazione dell’arco posteriore rimosso, ma spesso vanno integrati con innesti prelevati da un’ala iliaca, che è agevolmente raggiungibile, attraverso la stessa incisione, per via sottocutanea, fino a raggiungere il bordo esterno della articolazione sacro-iliaca, da cui accedere al margine esterno dell’osso iliaco (Fig. 24). Gli innesti vanno inseriti e pressati nello spazio intersomatico, finchè non ne sia completamente riempito. Si pratica quindi una modesta compressione, onde compattare gli innesti e bloccarli in sede (Fig. 25).
RIDUZIONE DELLA SPONDILOLISTESI
La riduzione della spondilolistesi rappresenta un tempo non sempre indispensabile. In effetti, le finalità primarie dell’intervento sono:
• Stabilizzare il rachide lombosacrale
• Risolvere i problemi neurologici. Il ripristino dei rapporti fra le vertebre non rappresenta l’obbiettivo primario. In effetti, purché si ottenga una buona fusione vertebrale ed una soddisfacente decompressione delle strutture neurologiche, mettere in opera delle manovre, spesso difficili, o laboriose, per ottenere una riduzione della olistesi, può risultare più la ricerca di un effetto estetico radiografico, che funzionale. Spesso non si considera, tra l’altro, che le radici nervose, da anni adattate alle situazione anatomica, spesso non sono in condizioni di seguire il movimento di riduzione; durante tale tempo, le strutture vanno osservate attentamente, per verificare che non si determini una tensione eccessiva, che può essere deleteria per la funzione neurologica.
Vi sono tuttavia delle condizioni nelle quali la riduzione diventa indispensabile:
• Nelle spondilolistesi displasiche ad alto grado di spostamento: in tali casi le condizioni biomeccaniche delle cerniera lombosacrale risultano talmente alterate, che non è ipotizzabile la realizzazione di una fusione adeguatamente solida. Le superfici di contatto fra le vertebre risultano cioè ridotte al minimo, per cui ottenere un adeguato affrontamento dei piatti epifisari diventa indispensabile, per garantire una sufficiente solidità alla artrodesi;
• Nelle situazioni neurologiche più importanti, nelle quali si assista ad una incarcerazione delle radici nervose nei forami di coniugazione, che non si mostrano adeguatamente aperti dopo la foraminotomia, può essere necessario ridurre la olistesi, per offrire uno spazio adeguato alle radici.
Nelle spondilolistesi degenerative, ove in genere il grado di migrazione delle vertebre risulta modesto,a nostro parere, la riduzione può essere addirittura controindicata. Le manovre infatti di riduzione possono contribuire ad alterare la vascolarizzazione, già precaria, delle strutture neurologiche, con aggravamento della sintomatologia deficitaria.
La tecnica della riduzione si basa su due principi fondamentali:
• Distrazione fra i corpi vertebrali, che deve essere necessariamente importante, e tale da aprire lo spazio reciproco, il quale risulta costantemente chiuso posteriormente. La mancata apertura dello spazio condurrebbe ad una sicura impossibilità di trazionare la vertebra posteriormente;
• Trazione posteriore della vertebra olistesica: la presa sui peduncoli offerta dalle viti peduncolari è tale da poter imprimere alla vertebra importanti forze di correzione. Non è raro tuttavia assistere ad un cedimento della presa, con migrazione posteriore delle viti, sotto le energiche forze che sono necessarie per la riduzione.
La distrazione, per essere efficace, va distribuita su più vertebre, per cui è preferibile posizionate due viti temporanee una o più vertebre al di sopra della vertebra olistesica, onde sfruttare un braccio di leva più lungo. Una volta posizionate tali viti (su L4 o L3, nel caso di una spondilolistesi L5S1), si determina fra esse una importante distrazione, sempre osservando di non superare i limiti di distensibilità delle strutture neurologiche. Raggiunta una distrazione tale da ottenere una sufficiente apertura fra le vertebre, si determina, sulle viti posizionate sulla vertebra olistesica, la trazione posteriore fra queste e le barre, mediante lo strumento apposito a vite senza fine, che esiste nel materiale ancillare del MOSS MIAMI. Altri strumentari consimili offrono una vite la cui testa è
molto più lunga e presenta una zona di frattura predeterminata, in maniera di poter ottenere la trazione posteriore mediante l’avvitamento dei dadi sulle barre, per poi spezzare la parte esuberante dopo la riduzione. Ottenuta la riduzione, si sostituisce la barra di un lato con una barra di lunghezza più corta, adeguata ad una strumentazione mono-segmentaria, mantenendo la distrazione sull’altra barra. Bloccata la prima barra sulle teste delle viti, si rimuove l’altra barra e la si sostituisce con una barra più corta, bloccando anche questa. Procedendo in questa maniera, non si perde alcunché di riduzione. ((Fig.26, 27, 28)
STRUMENTAZIONE ANTERIORE
Per strumentazione anteriore intendiamo l’utilizzazione di inserti intersomatici che hanno la funzione di favorire la fusione intervertebrale, oltre a possedere indubbie caratteristiche meccaniche. Proposti all’inizio degli anni ’90, questi impianti hanno subito una evoluzione diversa, secondo i concetti di vari Autori:
• L’ideatore dell’uso delle cages intersomatiche è un chirurgo nordamericano, Bagby, il quale le utilizzò per la prima volta nei cavalli da corsa (1984). In seguito, in associazione con Kuslich, mise a punto quello che doveva diventare il prototipo della cages filettate: il BAK;
• Nel 1991 Harms proponeva l’utilizzazione di cilindretti fenestrati in titanio, da riempire di innesti ossei e da posizionare verticalmente nello spazio intersomatico ;
• Brantigan e Steffee nel 1991 proponevano l’uso di gabbiette in fibra di carbonio a forma di parallelepipedo, da riempire di innesti ossei, e da posizionare a coppia nello spazio intersomatico.
Il principio delle cages è molto interessante, specie in considerazione dei problemi che si determinano durante il periodo di maturazione della fusione intersomatica. In effetti, una artrodesi intersomatica non si può considerare matura prima dei cinque – sei mesi dall’intervento, e durante questo periodo la strumentazione è sottoposta a notevoli sollecitazioni, che si vanno a concentrare sulla testa delle viti, specie quelle sacrali. Tali sollecitazioni possono condurre alla rottura delle viti (Fig. 29). Inoltre, in tale periodo lo spazio intersomatico può manifestare la tendenza a ridursi, sottoposto alle sollecitazioni del carico. I vantaggi che presentano le cages sono molteplici:
• Migliore distribuzione del carico sulla colonna anteriore;
• Discarico delle sollecitazioni sulle viti sacrali;
• Ripristino dello spazio intersomatico;
• Apertura del forame di coniugazione;
• Ripristino della lordosi fisiologica lombare.
Questi aspetti positivi ci hanno indotto ad utilizzare le cages dal 1994. Pur avendo utilizzato altri impianti ( Fig 30, 31) , abbiamo dato lo nostra preferenza alle cages cilindriche, in titanio, filettate, prodotte dalla Sofamor- Danek e dalla Eurosurgical (Fig. 32). Tali presidi sono accompagnati da uno strumentario estremamente pratico, che ne consente l’impianto in pochi minuti. In effetti, una volta preparato lo spazio intersomatico, viene posizionato, lateralmente al sacco durale, un tubo di protezione, attraverso il quale si introduce una grossa punta di trapano che prepara l’alloggiamento della cage. Successivamente si introduce la cage, preventivamente riempita di innesti di osso, la quale, essendo filettata, si fissa con grande sicurezza fra i due piatti epifisari vertebrali. Si segue un analogo procedimento per inserire la cage controlaterale (Fig 33).
Dopo più di cento interventi eseguiti con l’ausilio delle cages, abbiamo avuto un momento di riflessione. Questo è stato stimolato ben tre casi nei quali abbiamo osservato una sepsi profonda, che ci ha costretto alla rimozione dell’impianto di osteosintesi. Mentre il materiale posteriore è stato rimosso con la massima semplicità per via posteriore, è stato del tutto impossibile liberare il sacco durale dalle sue aderenze per raggiungere ed estrarre le cages. Abbiamo quindi dovuto programmare un secondo tempo per via anteriore, per via transperitoneale, nel corso del quale è stato possibile rimuovere le cages (che non erano inglobate nel processo di fusione) e procedere ad una revisione dello spazio intersomatico, inserendo in questo dei robusti innesti iliaci bicorticale.
Un ulteriore aspetto negativo dell’uso della cages è rappresentato dalla necessità di manipolare in maniera importante il sacco durale e le radici nervose, per poter posizionare il tubo attraverso il
quale preparare l’alloggiamento ed inserire le cages. Abbiamo osservato con qualche frequenza una lesione del sacco (anche se prontamente riparabile, così che non abbiamo dovuto lamentare alcun caso di fistola liquorale), ed un caso di sindrome della cauda equina, con paralisi di S1, S2, S3. Si trattava di una paziente di sessantatre anni, operata per una spondilolistesi degenerativa L4L5. In tale paziente l’intervento non presentava alcuna difficoltà, sennonché nel postoperatorio è insorta progressivamente una paralisi degli sfinteri ed anestesia a sella, non regredita che parzialmente. Abbiamo attribuito tale complicanza ad un incidente vascolare, da cui pensiamo non sia estranea la manipolazione importante che ha dovuto subire il sacco durale per l’inserzione delle cages. .
(Non va tralasciato un ulteriore elemento negativo dell’uso delle cages: l’aspetto economico, in quanto il loro costo incide sensibilmente sul costo globale dell’intervento).
Abbiamo quindi proceduto ad una revisione della nostra casistica di pazienti operati con la semplice artrodesi con innesti iliaci, ed abbiamo verificato la perfetta fusione in tutti i casi, osservando un numero insignificante di cedimenti del materiale posteriore di osteosintesi.
Questa esperienza ci ha portato ad interrompere l’uso delle cages.
COMPLICANZE
Il tasso di complicanze che abbiamo osservato nella nostra casistica (240 casi) di pazienti operati mediante le tecniche illustrate (artrodesi intersomatica eseguita per via posteriore, con l’uso costante di mezzi di osteosintesi posteriori e solo parzialmente con cages intersomatiche) si manifesta piuttosto modesto e del tutto accettabile.
Complicanze collegate alla ferita chirurgica:
• Sepsi superficiale, guarita senza necessità di ripresa chirurgica = 23 (10 %)
• Sepsi profonda che ha richiesto la rimozione del materiale di osteosintesi = 5 ( 2 %)
• Ematoma sottocutaneo (nei casi con prelievo iliaco) = 8 ( 3 %)
Complicanze di natura neurologica
• Sindrome della cauda con paralisi degli sfinteri = 1 ( 0.4 %)
• Lesione del sacco durale = 12 ( 5 %)
• Radicoliti postoperatorie = 15 ( 6 %)
Complicanze collegate alla osteosintesi posteriore
• Rottura delle viti precoce con necessità di ripresa = nessuna
• Rottura delle viti successiva alla fusione vertebrale = 18 ( 7.5 %)
• Intolleranza al materiale di osteosintesi (Sabot di Chopin) = 5 ( 2 %)
Complicanze collegate alla fusione vertebrale
• Pseudoartrosi = nessuna
Complicanze collegate alle cages intersomatiche
• Dislocazioni = nessuna
• Sepsi profonda = 3 ( 1.2 %)
Come si può osservare, la strumentazione posteriore offre modeste occasioni di complicanze. Così pure la manipolazione delle strutture nervose: va osservato che piccole lesioni, subito riparate, del sacco durale si sono osservate per lo più nei pazienti operati con le cages, come pure la più grave complicanza che abbiamo osservato, la sindrome della cauda equina.
CONCLUSIONI
Per molti anni, il trattamento chirurgico delle spondilolistesi ha rappresentato per noi un problema che sembrava irrisolvibile. Dall’epoca dell’intervento di Gill (la semplice rimozione dell’arco posteriore), dei primi tentativi di osteosintesi con materiale di Harrington, dell’uso delle placche di Roy-Camille, della utilizzazione del sistema CD, l’obbiettivo che ci proponevamo, di ottenere una artrodesi lombosacrale solida, senza bloccare del tutto la colonna lombosacrale, restituendo alle strutture neurologiche la loro funzionalità, sembrava irraggiungibile. L’artrodesi posterolaterale, anche se sostenuta da lunghe strumentazioni, o non era adeguata, favorendo ritardi o il fallimento della fusione vertebrale, o impediva un sufficiente approccio alle strutture endocanalari. La tecnica cui siamo pervenuti, e che abbiamo illustrato in questo studio, ci sembra aver raggiunto finalmente un livello di sicurezza e di efficacia molto soddisfacente. In effetti, il sacrificio della mobilità di un segmento lombosacrale, attraverso un sacralizzazione indotta chirurgicamente, ci sembra una limitazione assolutamente accettabile, in vista dei vantaggi offerti sul piano clinico e della ripresa funzionale dei pazienti. La quasi totalità dei quali ha ripreso una vita normale; molti hanno ripreso una attività sportiva a livello agonistico, alcuni a livello professionale. Molte pazienti di sesso femminile hanno avuto gravidanze del tutto fisiologiche, ad hanno potuto accudire alla famiglia ed ai propri figli senza problemi. Pensiamo che questi risultati rappresentino il motivo di soddisfazione maggiore per qualsiasi chirurgo.
BIBLIOGRAFIA
BAGBY G.W.: Arthrodesis by the distraction compression method using a stainless implant. Orthopedics, 11, 931-934, 1988
BRANTIGAN J.W., STEFFEE A.D., GEIGER J.M.: A carbon fiber implant to aid interbody lumbar fusion. Mechanical testing. Spine 16, 6S, 277-282, 1991
CHOPIN D. : CD instrumentation for idiophatic adult lumbar scoliosis. 4th Proceeding of the International Congress on Cotrel Dubousset Instrumentation,p. 61-67, Sauramps Med., Montpellier, 1987
HARMS J.: Screw-threaded rod system in spinal fusion surgery. Grob D. ed., Spinal Fusion,
p. 541-575, Spine, Hanley & Belfus, Philadelphia 1992
HARMS J:, BOHM H., ZIELKE K.: Surgical treatment of spondylolisthesis: The Harms Technique. Bridwell K.H., Dewald R.L.: The textbook of spinal surgery. P. 593, Philadelphia, JB Lippincott co., 1991
KUMMER B. : Biomechanische Aspekte zur Instabilitat der Wirbelsaule. Fuchs G.A. ed, Die Instabile Wirbelsaule. p. 8, Stuutgart, Thieme, 1991
KUSLICH S.D., ULTROM C.L., GRIFFITH S.L., AHEM J.W., DOWDLE J.D.: The Bagby and Kuslich method of lumbar interbody fusion. History, techniques, and 2-years follow-up results of a United States prospective, multicenter trial. Spine, 23, 1267-1279, 1998
MCAFEE P.C.:Current Concepts Review – Interbody fusion cages in reconstructive operations on the spine. J.Bone Joint Surg., 81-A, 6, 859-880, 1999
ROY-CAMILLE R. : La Charnière lombo-sacrée. 38-40, Masson Ed., Paris, Milan, Barcelone Bonn, 1992.
SHUFFLEBARGER H.L., GRIMM J.O., BUI V., THOMSON J.D.: Anterior and posterior spinal fusion. Spine 1991;16:930-3.
STEIB J.P.: SCS L’instrumentation rachidienne a modelage in situ. Eurosurgical ed. Beaurains, 1992.
WHITE A.A., PANJABI M.M. : Clinical Biomechanics of the Spine. J.B. Lippincott Co. ed., pag. 41, 1978.
FIGURE
Fig. 1: Meccanismo patogenetico della olistesi: sotto le sollecitazioni determinate dal carico (1), il corpo vertebrale, non più collegato all’arco posteriore per la presenza della lisi (2), essendo appoggiato su un piano inclinato, il sacro (3), viene ad essere sostenuto unicamente dal disco intervertebrale (4), il quale va incontro ad una progressiva degenerazione, con perdita della capacità di mantenere i rapporti fisiologici.
Fig 2 : la zona dell’istmo che si presenta litica nelle spondilolistesi istmiche (lisi congenita
o acquisita ?!)
Fig. 3 : Il meccanismo di “ghigliottinamento” della zona istmica della vertebra, sottoposta, specie nei movimento di estensione ed iperestensione, all’impatto della apofisi articolare inferiore della vertebra sovrastante, e della apofisi articolare superiore della vertebra sottostante.
Fig 4 : Nei ginnasti vi è una altissima frequenza di spondilolisi
Fig. 5 : La orizzontalizzazione del sacro e la conseguente verticalizzazione dello spazio L5S1 favoriscono la degenerazione del disco e la olistesi
Fig. 6 : La degenerazione del disco si esprime con il suo collasso, che conduce ad un contatto diretto fra i corpi vertebrali.
Fig. 7 : La degenerazione delle articolazioni interapofisarie determina una situazione di instabilità che conduce alla spondilolistesi degenerativa.
Fig. 8 : La patogenesi del dolore lombalgico è giustificabile:
1. dalla mobilità patologica della zona della lisi;
2. dalla degenerazione discale, che conduce ad un contatto diretto fra I corpi vertebrali.
Fig. 9 : Nelle spondilolistesi istmiche e displasiche il canale spinale non si stenotizza, ma tende piuttosto ad allargarsi.
Fig. 10 : Nelle spondilolistesi degenerative l’arco posteriore si muove insieme al corpo vertebrale, determinando un “ghigliottinamento” del canale, che conduce ad una stenosi localizzata.
Fig. 11 : nelle forme degenerative, la olistesi e la degenerazione discale contribuiscono a ridurre in misura importante il canale spinale.
Fig. 12 : L’asse istantaneo di rotazione di un segmento di moto lombare si localizza, secondo White e Panjabi, in diversi punti a seconda del tipo di movimento (flesso- estensione, rotazione, inclinazione laterale): ma in ogni caso si situa in corrispondenza della colonna anteriore.
Fig. 13 : Esame TC di un paziente portatore di una grave spondilolistesi displasica. Si noti l’ampia schisi dell’arco posteriore di S1, e la frammentazione dell’arco di L5. Si note anche come il canale spinale si presenti di notevole ampiezza.
Fig. 14 : Spondilolistesi displasica caratterizzata da un abnorme allungamento delle apofisi articolari.
Fig. 15 : Laminectomia allargata alla foraminotomia bilaterale mediante la resezione delle apofisi articolari.
Fig. 16 : Schema del montaggio monosegmentario con viti peduncolari ed artrodesi intersomatica.
Fig. 17 e 18 : Le viti poliassiali dello strumentario MOSS-MIAMI
Fig. 19 : Corretto posizionamento delle viti sacrali in un caso di spondilolistesi displasica operata con materiale SCS sec. Steib e cages Novus della Sofamor.
Fig. 20 : Il “Sabot” di Chopin: il dado è destinato a bloccare la barra del CD, mentre i fori sono orientati in maniera da posizionare le viti in una direzione prefissata. La vite superiore è diretta in avanti, verso il corpo sacrale, la vite più in basso è orientata verso l’ala sacrale (sabot destro).
Fig. 21: C.M.G., paziente di sesso femminile di 28 anni; presenta una spondilolistesi istmica L5S1. Operata con materiale CD più il Sabot di Chopin: si noti l’orientamento divergente delle viti sacrali. Dopo tre anni dall’intervento, allorché l’artrodesi si mostra completamente fusa, e la deformità ridotta stabilmente, presenta dolore in corrispondenza del materiale di osteosintesi, che viene rimosso, con scomparsa della sintomatologia dolorosa.
Fig. 22 : Immagine intraoperatoria: praticata la lamino-foraminotomia, si sono applicate le viti e le barre SCS in leggera distrazione. Le frecce indicano l’apertura bilaterale dello spazio discale, in corrispondenza della spalla delle radici.
Fig. 23 : La cruentazione dei piatti epifisari dei corpi vertebrali deve essere la più completa e scrupolosa possibile.
Fig. 24 : Immagine intraoperatoria che mostra l’accesso all’ala iliaca per il prelievo degli innesti ossei, attraverso la stessa ferita chirurgica.
Fig. 25 : Immagine intraoperatoria: lo spazio intersomatico è stato riempito di innesti ossei e viene praticata una compressione fra le viti per compattarli.
Fig. 26 : D.A.A. , Paziente di sesso maschile di 18 anni, che presenta una grave spondilolistesi displasica L5S1. Operato con materiale SCS, la riduzione si è resa necessaria per ottenere un affrontamento dei corpi vertebrali sufficiente a garantire una buona fusione.
Fig. 27 : C.A., paziente di sesso femminile di 28 anni. Presenta una spondilolistesi displasica L4L5, su L5 sacralizzata. Operata con materiale MOSS-MIAMI: si noti la buona riduzione e la completa fusione intersomatica.
Fig. 28 : C.A., soggetto di sesso femminile di 53 anni. Presenta una spondilolistesi degenerativa L4L5 con marcata stenosi del canale. E’ stata sottoposta ad artrodesi L4L5, con materiale MOSS-MIAMI, previa ampia lamino-foraminotomia.
Fig. 29 : B.Cr., paziente di sesso femminile di 43 anni, presentava una spondilolistesi L4L5 caratterizzata da una estrema instabilità, ed una spondilolisi L5S1. Operata di artrodesi intersomatica L4L5 ed L5S1, con materiale SCS. Dopo quattro anni dall’intervento, un controllo casuale mostrava la frattura delle viti sacrali, mentre la fusione intersomatica appariva soddisfacente. La p. è asintomatica ed ha rifiutato di essere sottoposta a rimozione dei mezzi di sintesi
Fig. 30 : C.F., paziente di sesso maschile di 38 anni. Presenta una spondilolisi L5S1 molto dolorosa. Sottoposto ad intervento di stabilizzazione con materiale MOSSMIAMI e cages di Harms.
Fig. 31 : C.E., paziente di sesso femminile di 19 anni. Presenta una grave spondilolistesi displasica L5S1, che è stata ridotta e stabilizzata con materiale MOSS-MIAMI e cages in carbonio sec. Brantigan. Si notino i punti metallici di repere, in quanto le cages sono radiotrasparenti.
Fig. 32 : La cage “Novus” della Sofamor. Essa va riempita di innesti ossei, e chiusa quindi con l’apposito inserto, prima di essere posizionata fra i corpi vertebrali.
Fig. 33 : L.B.D., paziente di sesso femminile di 21 anni. Presenta una grave spondilolistesi displasica L5S1, ridotta e stabilizzata con materiale SCS e cages Novus. Si noti come sia stato necessario sagomare le barrette per inserirle nelle viti. Tale manipolazione non si rende necessaria con l’uso delle viti poliassiali.